Costruita su un sito gallo-romano prima di diventare un priorato medievale distrutto durante le guerre di religione alle quali la cappella ha resistito.
Alcune tracce romane, frammenti di ceramiche, tombe sotto la pavimentazione e un cippo (piccola colonna romana scavata e trasformata in fonte battesimale) sono i resti più antichi del comune.
La cappella di Aubenasson, dedicata a San Giovanni Battista, era parte di un priorato dell’ordine di San Benedetto. Il dipinto di San Giovanni Battista e le due campane furono rubati nell’aprile del 1990.
La più grande, Joséphine, che pesa 54 kg e porta un’iscrizione incisa, fu ritrovata in un bosco nella regione di Orange. Nel febbraio del 1991, il Consiglio Comunale decise di sostituire la più piccola, fusa presso la fonderia Paccard ad Annecy e battezzata Jeannette. Il ritorno delle due campane fu celebrato con una cerimonia il 23 giugno 1991, giorno di San Giovanni, alla presenza del vescovo di Valence.
Lavori sono stati eseguiti in epoche diverse: negli anni ‘60 la cappella fu intonacata e dipinta all’interno, nel 1996 furono apportati miglioramenti con l’elettrificazione, l’installazione di un orologio elettronico con due martelli per il suono delle campane e il rifacimento del tetto e del campanile. Nel 1997, un gruppo di giovani ha lavorato per pavimentare il cortile.
Nel 2024 è stato realizzato un nuovo restauro sotto la consulenza di un tecnico dipartimentale del patrimonio: rimozione dell’intonaco dei muri, sabbiatura delle volte e stuccatura delle pietre con intonaco.
Construite sur un site gallo romain avant de devenir un prieuré médiéval détruit pendant les guerres de religions auxquelles la chapelle a résisté. Quelques traces Romaines, des fragments de poteries, des tombes sous le dallage et un cippe (petite colonne romaine creusée et transformée en cuve baptismale) sont les plus anciens vestiges de la commune.
La Chapelle d’Aubenasson, dédiée à Saint Jean-Baptiste, était celle d’un prieuré de l’ordre de Saint Benoît. Le tableau de saint Jean-Baptiste et les deux cloches furent volés en avril 1990. La plus grosse, Joséphine, qui pèse 54 kg et qui comporte une inscription gravée, fut retrouvée dans un bois dans la région d’Orange. En février 1991, le Conseil Municipal décide de remplacer la petite qui a été fondue à la fonderie Paccard à Annecy et l’a baptisée Jeannette. Le retour des deux cloches donne lieu à une cérémonie le 23 Juin 1991, jour de la Saint Jean, en présence de l’évêque de Valence.
Des travaux ont été réalisés à différentes époques ; dans les années 60 la chapelle a été crépie à l’intérieur et peinte, en 1996 des améliorations ont été apportées, électrification, pose d’une horloge électronique avec deux marteaux pour la sonnerie des cloches et réfection de la toiture et du clocher. En 1997, un chantier de jeunesse a pavé la cour.
En 2024, une nouvelle restauration est réalisée sous les conseils d’un technicien départemental du patrimoine, piquage des murs, sablage des voûtes et rejointoiement des pierres avec un enduit.
Le « carboniere » sono forni di carbonizzazione, del tipo Magnien, dal nome dell’inventore che li ha progettati nel 1922. Servono a ottenere carbone di legna, bruciando il legno fino all’eliminazione completa delle impurità. Tutti conosciamo l’uso del carbone per le grigliate estive, ma questi forni si sono diffusi soprattutto tra le due guerre mondiali.
Durante la Seconda guerra mondiale, con le requisizioni imposte dall’occupante, la popolazione dovette ricorrere a prodotti sostitutivi: stoffa al posto del cuoio, legno al posto della pelle per le scarpe, saccarina al posto dello zucchero, orzo per il caffè, topinambur per le patate, e così via. È in questo contesto, nel 1941, che le carboniere hanno trovato un nuovo impiego: alimentare i veicoli modificati con un sistema a gasogeno. La combustione del carbone produce infatti un gas povero, ma sufficiente a far funzionare un motore. Questi veicoli, seppur lenti (circa 20 km/h), erano fondamentali.
Questa pratica è proseguita fino al 1949, data della fine dei buoni alimentari. In un primo tempo, furono soprattutto gli italiani, poi le truppe indocinesi smobilitate dal governo di Vichy e impossibilitate a rientrare nei propri paesi, a essere impiegati in questo lavoro. Successivamente, anche i giovani chiamati ai « chantiers de jeunesse » si unirono a loro. Nel Diois, nel Vercors, nel Royans, come in tante altre foreste francesi, sorsero baracche dove vivevano famiglie spesso ai margini della società. Molti di questi luoghi diventeranno poi rifugi per i maquis (partigiani).
Gli italiani erano molto presenti in questa attività, che richiedeva competenza e abilità, qualità che svilupparono con maestria. Dall’inizio del Novecento fino agli anni Sessanta, gli italiani rappresentavano la principale popolazione immigrata in Francia. Dal 1870, diverse crisi economiche e sociali avevano spinto molti italiani a emigrare: fu uno dei più grandi movimenti migratori.
I legami tra la nostra regione e l’Italia sono però ben più antichi. Sul versante occidentale del monte Saint-Andéol, agli Auberts, sono stati ritrovati pugnali risalenti al Neolitico finale (3400-2400 a.C.), di tipo Remedello, una cultura originaria della Lombardia.
Il nostro territorio è ricco di « fayards » (nome provenzale per il faggio comune), un albero imponente che copre gran parte delle foreste francesi. Il suo legno è di ottima qualità, ideale per il riscaldamento.
Per costruire una carboniera, bisognava trasportare nel bosco, a dorso d’uomo o di mulo, tutto il materiale necessario. Le carboniere erano composte da tre parti in lamiera e da un coperchio. (Disegno di René Costerousse – Saillans) Pesavano circa 150 kg, avevano un diametro di 3 metri e un’altezza di 2,50 m.
La prima operazione consisteva nello spianare il terreno, spesso scavando la montagna, per ottenere una base perfettamente orizzontale su cui installare il forno. Lungo i sentieri, se trovate una superficie piatta di circa 8 metri di diametro, grattando il suolo potreste ancora scoprire dei residui di carbone.
Una volta posizionata la base, si collocavano al centro quattro grossi tronchi verticali che fungevano da camino. Attorno, direttamente sul suolo, si mettevano piccole ramaglie fino a un’altezza di 50 cm. Sopra di esse, si disponevano rami più grandi in verticale. Il legno veniva tagliato a mano, con l’ascia o la sega.
Dopo aver riempito il primo anello, si procedeva con il secondo, poi il terzo, fino a chiudere il tutto con il coperchio. Ci volevano tre giorni per riempire completamente un forno. Le prese d’aria venivano poi chiuse con la terra.
A quel punto, si inserivano rami accesi nel camino per dare fuoco alle ramaglie. Una volta accese, si chiudevano tutte le aperture di luce tranne una alla base. Seguivano tre o quattro giorni di sorveglianza costante.
All’inizio, usciva solo vapore acqueo, poi fumo bianco, che diminuiva gradualmente. Quando il fumo cessava, era il momento di chiudere quell’apertura e aprirne un’altra, fino a completare il ciclo. L’assenza totale di fumo era il segnale che la carbonizzazione era terminata. Bisognava essere pronti: se il fuoco prendeva, il carbone si perdeva. A quel punto si chiudevano tutte le aperture e si lasciava raffreddare.
Infine, si poteva estrarre il carbone, separando i rami mal bruciati, detti « incotti ».
Les « charbonnières » sont des fours de carbonisation, de type Magnien, du nom de leur inventeur en 1922.
Elles permettent d’obtenir du charbon de bois en brûlant ce matériau jusqu’à la disparition complète des impuretés. Nous connaissons l’utilisation du charbon de bois pour faire cuire nos grillades l’été, mais les fours se sont surtout développés entre les deux guerres mondiales.
Du fait de la réquisition des marchandises par l’occupant durant la Seconde guerre mondiale, la population se tournait vers des produits de substitution : le tissu à la place de la peau et le bois pour le cuir dans la chaussure, la saccharine pour le sucre, l’orge pour le café, le topinambour pour la pomme de terre, etc.
C’est ainsi que pendant le deuxième conflit mondial, en 1941, l’activité des charbonnières était essentiellement destinée au fonctionnement des véhicules modifiés utilisant le gazogène. La combustion du charbon de bois produit en effet un gaz pauvre, mais suffisant pour actionner un moteur. Les véhicules atteignaient des performances remarquables aux environs de 20 km/h. Cette utilisation a perduré jusqu’en 1949, jusqu’à la fin des tickets d’alimentation.
Au début, ce sont les Italiens puis les troupes indochinoises qui, démobilisées par le gouvernement de Vichy et ne pouvant rentrer chez eux, furent réquisitionnés pour ce travail. Ils seront ensuite rejoints par les hommes appelés sur les chantiers de jeunesse.
C’est ainsi que dans le Diois, le Vercors, le Royans, comme dans toutes les forêts de France, surgirent des baraquements dans lesquels vivaient des familles quasiment en marge de la société que l’on retrouvera souvent d’ailleurs chez nous dans l’émergence des maquis. Les Italiens sont très nombreux dans cette activité pour laquelle ils développent un savoir-faire très performant.
Du début du 20e jusqu’aux années 1960, il faut se rappeler que les Transalpins représentent la majorité des populations immigrées. Depuis 1870, à la suite de diverses crises économiques et sociales traversées en Italie, c’est le plus important mouvement migratoire.
En ce qui concerne notre territoire les échanges avec l’Italie remonte à loin puisque l’on retrouve sur la façade ouest de la montagne saint-Andéol, aux Auberts, la trace des poignards du Néolithique final régional, période la plus récente de l’âge de pierre, soit 3400 à 2400 ans avant notre ère – qui sont de type Remedello dont la culture est localisée en Lombardie.
Pour le bois, notre secteur regorge de fayards (mot nord-provençal désignant le hêtre commun). C’est un arbre imposant qui recouvre la majorité des forêts françaises. Il est de très bonne qualité et offre un excellent bois de chauffage. Il fallait d’abord apporter dans la forêt, à dos d’homme et de mulet, les ustensiles nécessaires au montage des fours.
Les charbonnières étaient composées de trois parties en tôle et d’un couvercle. (Dessin de René Costerousse – Saillans) Leur poids total était d’environ 150 kg., le diamètre à la base de 3 m. et la hauteur de 2,50 m.
Leur installation nécessitait d’abord de creuser la montagne afin d’obtenir un plan, parfaitement horizontal, sur lequel était dressé le four. Le long des sentiers, si vous passez à proximité d’une surface plane d’environ 8 m. de diamètre, vous pourrez probablement trouver des restes de charbon en grattant le sol.
La 1ʳᵉ partie du four étant en place, on disposait au centre et à la verticale, 4 gros troncs de bois qui faisaient office de cheminée. Autour, à même le sol et sur toute la surface du four, de petites branches étaient disposées sur une hauteur de 50 cm. Par-dessus prenaient place des branches plus importantes posées verticalement.
Le bois était coupé à la hache ou à la scie. Lorsque le premier cercle était ainsi rempli, on disposait le second et la même opération se déroulait. Idem avec le troisième cercle pour terminer avec le couvercle.
Il fallait compter trois jours pour garnir un four. Les prises d’air étaient supprimées avec de la terre. Des branches enflammées étaient alors mises dans la cheminée et poussées au fond pour mettre à leur tour le feu aux petites branches. Une fois ces dernières en flammes, on fermait tous les points de lumière sauf un à la base.
Commençait alors une longue surveillance de 3 à 4 jours qui réclamait une attention de chaque instant Au début de l’opération, c’est de la vapeur d’eau qui sortait, laissant ensuite la place à de la fumée blanche, celle-ci s’estompant progressivement.
Il fallait alors s’empresser de « fermer » la lumière et d’en ouvrir une autre, la manœuvre se renouvelant jusqu’à la dernière. L’absence de fumée était le signal de la fin de la carbonisation. Il ne fallait surtout pas manquer cet instant sinon le bois prenait feu et le charbon devenait inutilisable.
On fermait alors toutes les ouvertures et on laissait refroidir. On pouvait enfin sortir le charbon en mettant de côté les branches mal brûlées qu’on appelait les « incuits ».