Le Carboniere


Le « carboniere » sono forni di carbonizzazione, del tipo Magnien, dal nome dell’inventore che li ha progettati nel 1922.
Servono a ottenere carbone di legna, bruciando il legno fino all’eliminazione completa delle impurità.
Tutti conosciamo l’uso del carbone per le grigliate estive, ma questi forni si sono diffusi soprattutto tra le due guerre mondiali.

Durante la Seconda guerra mondiale, con le requisizioni imposte dall’occupante, la popolazione dovette ricorrere a prodotti sostitutivi: stoffa al posto del cuoio, legno al posto della pelle per le scarpe, saccarina al posto dello zucchero, orzo per il caffè, topinambur per le patate, e così via.
È in questo contesto, nel 1941, che le carboniere hanno trovato un nuovo impiego: alimentare i veicoli modificati con un sistema a gasogeno.
La combustione del carbone produce infatti un gas povero, ma sufficiente a far funzionare un motore. Questi veicoli, seppur lenti (circa 20 km/h), erano fondamentali.

Questa pratica è proseguita fino al 1949, data della fine dei buoni alimentari.
In un primo tempo, furono soprattutto gli italiani, poi le truppe indocinesi smobilitate dal governo di Vichy e impossibilitate a rientrare nei propri paesi, a essere impiegati in questo lavoro.
Successivamente, anche i giovani chiamati ai « chantiers de jeunesse » si unirono a loro.
Nel Diois, nel Vercors, nel Royans, come in tante altre foreste francesi, sorsero baracche dove vivevano famiglie spesso ai margini della società. Molti di questi luoghi diventeranno poi rifugi per i maquis (partigiani).

Gli italiani erano molto presenti in questa attività, che richiedeva competenza e abilità, qualità che svilupparono con maestria.
Dall’inizio del Novecento fino agli anni Sessanta, gli italiani rappresentavano la principale popolazione immigrata in Francia.
Dal 1870, diverse crisi economiche e sociali avevano spinto molti italiani a emigrare: fu uno dei più grandi movimenti migratori.

I legami tra la nostra regione e l’Italia sono però ben più antichi.
Sul versante occidentale del monte Saint-Andéol, agli Auberts, sono stati ritrovati pugnali risalenti al Neolitico finale (3400-2400 a.C.), di tipo Remedello, una cultura originaria della Lombardia.

Il nostro territorio è ricco di « fayards » (nome provenzale per il faggio comune), un albero imponente che copre gran parte delle foreste francesi.
Il suo legno è di ottima qualità, ideale per il riscaldamento.

Per costruire una carboniera, bisognava trasportare nel bosco, a dorso d’uomo o di mulo, tutto il materiale necessario.
Le carboniere erano composte da tre parti in lamiera e da un coperchio. (Disegno di René Costerousse – Saillans)
Pesavano circa 150 kg, avevano un diametro di 3 metri e un’altezza di 2,50 m.

La prima operazione consisteva nello spianare il terreno, spesso scavando la montagna, per ottenere una base perfettamente orizzontale su cui installare il forno.
Lungo i sentieri, se trovate una superficie piatta di circa 8 metri di diametro, grattando il suolo potreste ancora scoprire dei residui di carbone.

Una volta posizionata la base, si collocavano al centro quattro grossi tronchi verticali che fungevano da camino.
Attorno, direttamente sul suolo, si mettevano piccole ramaglie fino a un’altezza di 50 cm.
Sopra di esse, si disponevano rami più grandi in verticale.
Il legno veniva tagliato a mano, con l’ascia o la sega.

Dopo aver riempito il primo anello, si procedeva con il secondo, poi il terzo, fino a chiudere il tutto con il coperchio.
Ci volevano tre giorni per riempire completamente un forno.
Le prese d’aria venivano poi chiuse con la terra.

A quel punto, si inserivano rami accesi nel camino per dare fuoco alle ramaglie.
Una volta accese, si chiudevano tutte le aperture di luce tranne una alla base.
Seguivano tre o quattro giorni di sorveglianza costante.

All’inizio, usciva solo vapore acqueo, poi fumo bianco, che diminuiva gradualmente.
Quando il fumo cessava, era il momento di chiudere quell’apertura e aprirne un’altra, fino a completare il ciclo.
L’assenza totale di fumo era il segnale che la carbonizzazione era terminata.
Bisognava essere pronti: se il fuoco prendeva, il carbone si perdeva.
A quel punto si chiudevano tutte le aperture e si lasciava raffreddare.

Infine, si poteva estrarre il carbone, separando i rami mal bruciati, detti « incotti ».

(Disegni di René Costerousse – Saillans.)